Un film rivelazione, vincitore della Palma d’oro di Cannes ma soprattutto prima pellicola in lingua non inglese ad aggiudicarsi l’Oscar come miglior film. Stiamo parlando di Parasite del regista coreano Bong Joon-Ho, che racconta la storia di due famiglie di estrazione sociale opposta anche attraverso l’architettura e la scenografia.
Il linguaggio architettonico e l’uso degli spazi contribuiscono a marcare la differenza tra le due famiglie, in un equilibrio tra vuoti e pieni, tra il design e la sua mancanza. Così da un lato abbiamo il seminterrato dove vive la famiglia Kim, un’abitazione piccola, angusta e squallida con una piccola finestra che dà sul livello della strada e che rende perfettamente lo status sociale dei Kim. Uno spazio che è metafora del loro atteggiamento verso il mondo e che riflette realmente la psiche della famiglia: il vivere in bilico tra la possibilità di riscatto e la caduta definitiva, tra la speranza e la paura di cadere ancora più in basso.
Dall’altro lato invece il minimalismo moderno della villa dei Park, realizzata in legno, pietra e vetro con ambienti ampi, scale asciutte che portano ai piani superiori e finestre giganti. Pochi mobili, spazi ampi e luminosi, un giardino esterno che a tutti gli effetti costituisce un elemento di arredo e di dialogo architettonico. Una casa piena di livelli, reali e metaforici.
L’abitazione, che nella finzione è stata progettata dall’architetto Namgoong Hyeonja, ma che in realtà è un set all’aperto costruito dallo scenografo di Parasite Lee Ha Jun, è definita dalla luce che invade gli spazi, calda e naturale che contrasta con la fioca illuminazione artificiale dell’appartamento dei Kim. Un ambiente, la villa, apparentemente perfetto che nel corso del film diventa teatro di un dramma carico di mistero, in cui tutti i segreti vengono svelati, grazie alla scoperta di un nuovo ambiente di cui nessuno ne conosceva l’esistenza.