«Non angosciamoci troppo perché ci sarà da costruire un futuro migliore»: è questo il messaggio che Renzo Piano, il celebre architetto vincitore del Premio Pritzker nel 1998, ha rivolto nei giorni scorsi ai giovani che svolgono la sua stessa professione o desiderano seguire le sue orme. Partecipando al progetto “Liberi di uscire col pensiero #iorestoacasa” del Maxxi di Roma, il senatore a vita, dalla sua casa di Parigi, ha parlato alle nuove generazioni attraverso un video carico di speranza per il futuro dell’architettura post coronavirus.
«Siete voi che dovete salvare il mondo, alla mia generazione ciò non è riuscito, però voi potete farlo perché è evidente che succederà qualcosa, e non potrà che essere in meglio. La consapevolezza che il mondo è fragile ha aperto il nuovo millennio e l’architettura oggi è già questo, l’arte del costruire edifici che respirano che non consumano troppa energia, anzi, che vivono in simbiosi con l’ambiente. Fragilità e sensibilità degli edifici che non è soltanto un aspetto negativo, ma è in realtà una loro frontiera espressiva», afferma Renzo Piano nel videomessaggio diffuso sui canali social del museo romano.
Partendo dalla fragilità del nostro pianeta e della nostra società, che questa pandemia ha reso ancora più evidente, i giovani dovranno costruire un mondo migliore sfruttando le nuove possibilità che derivano da questo drammatico scenario per diffondere e praticare un’architettura più consapevole. «Il ruolo degli architetti e dei costruttori di domani è un ruolo molto importante e nonostante il momento di tristezza ci vuole anche coraggio e tutti assieme lo troveremo», aggiunge il progettista genovese.
Una tristezza, specifica Renzo Piano, dovuta tra l’altro all’impossibilità di incontrasi, specie nei centri culturali o nei musei «è drammatico perché sono luoghi per stare insieme, condividere valori quali l’arte, la cultura, il sapere la conoscenza, l’amicizia. Sono luoghi civici e di civiltà». Un confronto con le persone e con l’ambiente che ci circonda che all’architetto manca molto come ha dichiarato in una recente intervista rilasciata al Corriere della Sera: «Inutile raccontare bugie. Lo smart working è un esperimento interessante? Col piffero. Se non vai in giro, se non trai ispirazione dalla realtà, come fai a lavorare, a creare? Il contatto con la realtà mi manca profondamente. Questa malattia è diabolica perché ti impedisce il contatto con le cose, con la gente. Nel mio lavoro le idee vengono da un gigantesco ping-pong che si gioca con venti palline: una persona — un ingegnere, un costruttore, un caposquadra, un operaio — dice un cosa, che diventa un’idea quando un altro la acchiappa, la rimanda, torna a riceverla con un effetto diverso. La creatività è sempre condivisa. Poi magari ti siedi da solo al tavolo e ti metti a disegnare, o a scrivere, o a pensare».
Veramente piacevole e sereno, una vera archistar, forse l’unica archistar del nostro tempo, consapevole, cosciente di quello che progetta, mai per se stesso, mai imponendo il proprio segno in ogni parte del mondo:sempre lo stesso, replicando e rigirando la propria firma, ma sempre interpretando il ”genius loci” come direbbe un altro grande, con progetti sensibili, pensati a misura di ambiente, naturali, vivi, singolari, mai ripetuti eppure figli dello stesso padre.